GIOVEDI' 14 LUGLIO 2011
presso Palazzo Cattaneo, in Via degli Oscasali, 3
alle ore 21: ”Allons enfants de la Patrie.... Cremona e la Rivoluzione Italiana”
conferenza del Presidente dell'Associazione
prof. GIAN CARLO CORADA
alle ore 21,30: nei cortili e nel giardino di Palazzo Cattaneo brindisi "Liberté, Egalité e Fraternité" con musica d'accompagnamento.
Alla serata sono cordialmente invitati i cittadini francesi residenti a Cremona.
L'intera cittadinanza é invitata a partecipare.
Ingresso libero
Cremona
e la Rivoluzione Francese
Introduzione.
Il
presente opuscolo riporta, più o meno, il testo di una conferenza.
Ha quindi un carattere assolutamente discorsivo e non comporta note o
bibliografie. Verrà il momento per un saggio più approfondito, con
tutti gli “apparati” che giustamente sono di solito utilizzati.
Ciò non toglie che io debba dichiarare il mio tributo per fonti e
notizie a diversi studiosi che nel passato, remoto e recente, hanno
scritto dell'esperienza cremonese di quella che, con bella
espressione, Ugo Foscolo chiamò “Rivoluzione d'Italia”: da
Vincenzo Lancetti a Fiorino Soldi, da Luigi Ratti a Gianfranco
Taglietti, a Lucio Villari ed agli autori del bel volume sul
Settecento della “Storia di Cremona”, coordinato da Carlo Capra.
L'intento
mio primo e dichiarato è quello di ricostruire, in sintesi, le
vicende cremonesi dal 1796, quando i francesi entrarono in città,
fino al 1814, quando definitivamente tornarono gli austriaci.
L'obbiettività della ricerca storica, per quanto difficilmente
raggiungibile, deve essere sempre posta come fine da perseguire.
Dichiaro subito, comunque, due convinzioni. La prima l'ho maturata
proprio studiando la storia cremonese del periodo in questione: aver
vissuto la città ed il territorio in quei vent'anni scarsi un
momento estremamente interessante, di sviluppo e vivacità rispetto
agli anni precedenti ed anche a quelli immediatamente successivi,
almeno fino al 1848; essere stato presente ed attivo un gruppo di
persone, non così ristretto come si potrebbe pensare, coerente con
le proprie idee e pronto a pagare per esse, a sacrificarsi, persone
che sono state quasi del tutto dimenticate sia dalla toponomastica
che dalle cronache locali. La seconda convinzione è precedente e
deriva dagli studi che ho compiuto sull'Illuminismo e sul Settecento.
L'Illuminismo, prima, e la Rivoluzione francese, poi, con le sue
contraddizioni ed i suoi eccessi, sono stati straordinari “movimenti”
culturali e politici “borghesi”, nel senso che, salvo esigue
minoranze, i rapporti di proprietà non sono stati messi in
discussione e libertà ed eguaglianza erano considerati valori
fondamentali ma in una sfera che non toccava se non in minima parte
le differenze sociali. Anche gli espropri ed i sequestri di beni
degli ordini religiosi e di alcuni nobili ostili (rientranti in
Lombardia, per quanto riguardava la Chiesa, in una politica già
dall'Austria seguita) ebbero carattere episodico, di continuità con
il passato, emergenziale e tutto sommato di non grande rilevanza.
Eppure io credo che quei concetti di libertà ed eguaglianza, nati
storicamente così, maturati in un contesto ben definibile e
databile, siano divenuti dei valori universali, imprescindibili, non
negoziabili. Vi è chi contesta questa convinzione, lo so, ma io
penso che il fallimento dei regimi comunisti e di quelli reazionari
così come le brutture dell'intolleranza, il fanatismo del terrorismo
e le incertezze dei nostri sistemi ci obblighino a ripensare certi
valori originari (come appunto la libertà, l'eguaglianza e la
fraternità), a riallacciarsi ad essi, rinnovandoli, ed a
valorizzarne l'universalità.
Nel
1796 Napoleone Bonaparte, alla testa di un esercito francese, invade
l'Italia. Il suo progetto aveva poco da spartire con gli ideali della
Rivoluzione e tanto meno con le idee giacobine. Aveva una valenza
prevalentemente militare e tattica. Il Direttorio, che comandava in
Francia dopo la sconfitta di Robespierre e dei suoi seguaci, aveva
concordato con l'ambizioso generale còrso di portare la guerra in
Italia per liberare i confini sud-orientali della Francia da una
possibile invasione austro-piemontese e per impossessarsi delle
ricchezze italiane, al fine di rimpinguare le casse dello Stato e
finanziare la guerra. Tutto desiderava, il Direttorio, meno che la
presenza di Stati “giacobini” al confine della Francia. Ed, a
dire il vero, nemmeno l'aveva messo in conto! Ma a volte la storia
agisce per vie sue, imperscrutabili se non ai posteri. E così,
mentre le vittorie di Napoleone allontanavano dalla Francia il
pericolo austriaco e portavano al saccheggio delle ricchezze italiane
(con pregiudizio anche del consenso popolare nei confronti del nuovo
potere!), provocarono anche un entusiasmo non previsto in una parte
non del tutto insignificante della popolazione. In diversi posti
Napoleone ed i francesi vennero accolti come liberatori. Non fu mai
la massa dei contadini o dei poveri nelle città, e neppure i nobili,
a vederli così. Ma intellettuali, commercianti, artigiani, una parte
del clero, assunsero atteggiamenti che dimostrano come le idee sui
“diritti” diffuse dall'Illuminismo avessero fatto presa nel corso
degli anni. Napoleone, sorpreso lui pure, adottò per alcuni anni un
atteggiamento ambiguo, di volta in volta favorendo i giacobini o
contrastandoli, illudendo gli italiani circa il rispetto dei principi
di indipendenza e nazionalità o schierandosi contro, secondo
l'opportunità della “partita a scacchi” per il potere che stava
giocando con il Direttorio. Gioco su più tavoli che continuò, in
modo assai più contenuto, anche dopo il colpo di stato che portò
Napoleone a Console a vita e poi Imperatore. Napoleone dunque suscitò
un sentimento di identità nazionale in un Paese che sembrava esserne
privo. Non possiamo qui seguire le vicende delle Repubbliche
cispadana, cisalpina, romana, partenopea, italiana. Possiamo solo
ricordare che nei primi anni i movimenti democratici ebbero maggiore
libertà d'azione e che, con il passare del tempo, prevalsero
soprattutto nelle autorità francesi atteggiamenti repressivi delle
posizioni più avanzate. Ricordiamo anche, per onore del vero, che
queste posizioni più avanzate (antiassolutismo, libertà, diritti,
maggiore eguaglianza anche sociale) erano sostenute prevalentemente
da persone colte e ricche, appartenenti ad ambienti che oggi
definiremmo alto-borghesi. In alcuni casi (a Milano, a Napoli)
appartenenti anche a settori della nobiltà (a Cremona il patriziato
fu sempre, con pochissime eccezioni, reazionario ed austriacante). L'identificazione fra ricchi e giacobini, più vera in Italia che in
Francia, rendeva facile la propaganda contro chi diceva di parlare in
nome del popolo per abbattere le vecchie istituzioni.
Comunque,
con tutti i loro limiti, i giacobini settentrionali, in particolare
quelli lombardi, sono davvero da annoverare fra i primi patrioti
italiani. Tentarono di fare della Repubblica cisalpina e poi italiana
il nucleo fondante di un futuro Stato nazionale. Questa esperienza,
cui Cremona diede un enorme contributo, è stata offuscata agli occhi
dei posteri da vari fattori: il fatto anzitutto che sia durata poco
tempo e che poi la Repubblica si sia trasformata nel Regno
napoleonico; che protagonisti siano stati i giacobini, o presunti
tali, cioè i democratici dell'epoca, che non godevano di buona fama
presso le masse (ricchi, anticlericali, sprezzanti...); che sia stata
infine instaurata dalle baionette dei francesi, predatori soprattutto
all'inizio di tante nostre ricchezze, e da essi sostanzialmente
diretta. E pensare che nulla dispiaceva ai francesi come una
Repubblica italiana autonoma, tendente ad unificare la penisola!
Abbiamo documenti da cui risulta come le autorità francesi fossero
molto preoccupate da quel che stava accadendo in Italia e tentassero
di agire per spingere la situazione in direzione di un sostanziale
conservatorismo sociale (riuscendoci!). Ai francesi, insomma, le
Repubbliche italiane piacevano finché restavano sottomesse
all'autorità della Francia, tranquille e senza “colpi di testa”
egualitaristici; non piacevano e bisognava bloccarle se ambivano ad
unificare il Paese in un unico Stato, forte abbastanza da far da
contrasto alla Francia, per di più da posizioni richiamanti gli
iniziali ideali rivoluzionari.
La
storia della “Rivoluzione d'Italia” fu dunque breve e
contrastata, ma ricca di episodi eroici (di tradimenti, anche, certo:
la storia, ieri come oggi, in città come in campagna, è fatta di
venduti e comprati, oltre che per fortuna di uomini e donne dalla
schiena dritta!). Lasciò un patrimonio di idee e di valori alle
generazioni future, la cui incidenza nella Rivoluzione patriottica
che portò all'Unità ancora non è stata indagata, né a livello
locale né a livello nazionale. Voglio dire che il nostro
Risorgimento deve molto, più di quanto si creda e si sia affermato,
alla Rivoluzione giacobina italiana. Tanto per fare un esempio, io
credo che il permanere a lungo fra i nostri patrioti, sia moderati
che democratici, di un sentimento nazionale non offensivo nei
confronti delle altre nazionalità, sia un lascito di quella
esperienza.
Le
vittorie di Napoleone e la trasformazione della Repubblica d'Italia
in Regno rappresentarono la svolta moderata della Rivoluzione
italiana. Ma anche la svolta moderata lasciò tracce nella storia del
nostro Paese e del suo gruppo dirigente. L'idea di Roma città
universale, non più perché sede del Papato ma perché città della
scienza e della modernità e capitale di uno Stato sovrano, nasce da
lì. L'abolizione della feudalità, anche nel centro e nel sud, venne
confermata ed anzi accentuata dal potere napoleonico. Murat poi,
l'ultimo dei napoleonidi ed il primo sovrano italiano autonomo, con
il proclama di Rimini del 1815 (redatto dall'illustre giurista ed
economista Pellegrino Rossi) ai “popoli italiani”, pose le basi
del movimento nazionale successivo.
Qualunque
sia il giudizio conclusivo che si vuol dare sul regime napoleonico,
gli storici concordano su alcuni punti, almeno per quanto attiene
all'Italia. Sono stati introdotti comportamenti e stili politici che
possiamo definire liberali e che saranno un punto di partenza dal
1848 in poi, quando le condizioni porranno di nuovo all'ordine del
giorno la possibilità di dar vita ad Istituzioni ispirate a principi
di libertà. Pensiamo alla trasparenza e pubblicità dei Bilanci
pubblici, che oggi sembra un risultato scontato ma che l'ancien
régime non prevedeva affatto! Altro dato positivo del periodo
napoleonico in Italia, da tutti gli storici riconosciuto, è
rappresentato dal consistente potenziamento del sistema scolastico
pubblico, con l'introduzione dei Licei e di una diffusa scuola
elementare, e di una rete capillare di uffici pubblici (uffici
postali, caserme ecc) oltre che di norme innovative per tutto ciò
che attiene la vita civile (anagrafe, matrimoni, funerali, sevizi
sociali), con la formazione di una moderna burocrazia. Positiva fu
anche l'introduzione di tariffe doganali protezionistiche (il
protezionismo è utile, in presenza di una industria debole ed agli
inizi) per tutelare i prodotti industriali ed artigianali locali,
soprattutto tessili. E positive furono le riforme in agricoltura, con
le modifiche del sistema degli affitti e della mezzadria, riforme
tese ad introdurre più moderne modalità di conduzione delle aziende
e rapporti di proprietà non feudali. Tutti questi interventi,
dall'economia alla vita civile all'istruzione all'amministrazione,
vennero condotti in tutto il territorio della penisola. Con un tratto
unitario, intendo dire, pur con gli inevitabili adattamenti e le
differenze. Ciò è importantissimo, perché se una linea omogenea
fosse stata seguita anche dopo, soprattutto dopo l'Unità, senza
prevaricare e dimenticare le differenze, probabilmente la “questione
meridionale” non avrebbe assunto la drammaticità che invece
sappiamo.
Gli
storici concordano anche nel valutare i pesanti limiti
dell'esperienza napoleonica in Italia. A partire dal pesante tributo
di sangue che le continue guerre imperiali richiedevano e dalla leva
obbligatoria (o semiobbligatoria), odiatissima sempre dal mondo
contadino. Ma anche il carattere élitario e borghese di molte
riforme contribuisce a spiegare il mancato consenso e quindi, in
parte almeno, la sconfitta. Voglio dire che certe trasformazioni
sociali non furono spinte fino in fondo, che certe clamorose
ingiustizie sociali rimasero, anche per le paure dei francesi; e ciò
tolse credibilità e consenso ai patrioti italiani.
A Cremona non fu
diversamente. La città seguì le sorti del Paese. Ma quei vent'anni
furono determinanti anche per la nostra storia. Le vicende ed i
protagonisti di quel periodo non possono essere così brutalmente
dimenticati come lo sono stati. Con le nostre iniziative vogliamo
contribuire a togliere dall'oblio storie e persone che meritano di
essere ricordate.
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